(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

Corte di cassazione. Ordinanza 19 aprile 2025, n. 10384

Pensione indiretta. Riduzione della pensione. Redditi di impresa. Ripetibilità delle somme indebitamente percepite. Contribuzione previdenziale. Gestioni obbligatorie sostitutive

“[…] La Corte di cassazione

(omissis)

Rilevato che

B.M.T. impugna la sentenza n. 598/2018 della Corte d’appello di Torino che ha confermato la pronuncia del Tribunale della medesima sede che aveva rigettato il ricorso volto a sentir dichiarare l’illegittimità della riduzione della pensione indiretta, di cui godeva a seguito del decesso del coniuge, operata dalla Cassa Italiana di Previdenza ed Assistenza dei Geometri Liberi Professionisti in conseguenza del percepimento di asseriti redditi di impresa, ad ottenerne il ripristino nella misura originaria ed a conseguire la restituzione di quanto trattenuto.

Resiste la Cassa Italiana di Previdenza ed Assistenza dei Geometri Liberi Professionisti con controricorso.

Chiamata la causa all’adunanza camerale del 26 febbraio 2025, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di giorni sessanta (art.380 bis 1, secondo comma, cod. proc. civ.).

Considerato che

B.M.T. propone due motivi di ricorso, così rubricati.

I)violazione, falsa applicazione dell’art. 2082 cod. civ., dell’art. 49 della legge n. 88/1989, dell’art. 3 della legge n. 45/1986, dell’art. 1 della legge n. 233/1990, dell’art. 3bis del d.l n. 384/1992, dell’art. 1, comma 203, della legge n 662/1996, degli artt. 5 e 6 del d.P.R. n. 917/1986 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. – Motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 cod. proc. civ.

II)violazione, falsa applicazione dell’art. 13 della legge n. 412/1991 in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. – Motivazione insufficiente, illogica in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.

Avendo percepito redditi di impresa tra il 2011 ed il 2015, B.M.T. ha subito una riduzione della pensione indiretta erogatale dalla Cassa, in applicazione dell’art. 18 del Regolamento previdenziale della Cassa, in forza del quale “l’importo delle pensioni di cui al presente articolo è ridotto qualora il titolare possieda altri redditi da lavoro autonomo o dipendente o da impresa, secondo le percentuali previste per le pensioni facenti carico all’INPS”.

La Corte territoriale ha richiamato l’art. 5 del d.P.R. n. 917/1986, secondo cui “i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice … sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”, ed il successivo art. 6, in base al quale “i redditi delle società in norme collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi di impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi”.

Dalla lettura delle due norme e attraverso il richiamo a Corte cost. n. 354/2001, i Giudici hanno concluso che “i redditi prodotti in forma associata sono del tutto assimilabili ai redditi d’impresa ai fini contributivi, anche se non provento dell’attività di lavoro del socio”.

Il primo motivo censura la sentenza in parte qua.

Detto motivo è infondato, alla luce dei pacifici arresti della giurisprudenza di legittimità, da cui non vi sono ragioni di discostarsi.

Valga, in proposito, richiamare, ex multis, Cass. n. 25867/2023 che, con motivazione pienamente condivisa dal Collegio, ha così statuito: «al fine di individuare quale sia il reddito di impresa rilevante ai fini contributivi, occorre per coerenza di sistema fare riferimento alle norme fiscali, e dunque in primo luogo al testo unico delle imposte sui redditi, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.

31. Il suddetto D.P.R. contiene distinte disposizioni onde qualificare i redditi d’impresa rispetto ai redditi di capitale: i primi, a mente dell’art. 55 (nel testo post-riforma del 2004) sono quelli che derivano dall’esercizio di attività imprenditoriale, mentre l’art. 44, lett. e) (nel testo post-riforma del 2004) ricomprende tra i redditi di capitale gli utili da partecipazione alle società soggette ad IRPEG (ora IRES).

 32. Per i soci di società di persone opera il principio della trasparenza fiscale, in forza del quale i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi di impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi (D.P.R. n. 917 del 2016, art. 6, comma 3, del testo postriforma del 2004).

 33. Ed è proprio dal regime dettato per le società di persone che è derivato il principio, affermato da questa Corte nella sentenza n. 29779 del 2017, secondo il quale ai fini della determinazione dei contributi dovuti dagli artigiani ed esercenti attività commerciali, vanno computati anche i redditi percepiti in qualità di socio accomandante, seppure diversi dal reddito che trova causa nel rapporto di lavoro oggetto della posizione previdenziale».

Va poi rimarcato che la Corte cost. nella  sentenza n. 354/2001 ha ben distinto tra la posizione dei soci (non lavoratori) delle società di capitali e quelli delle società di persone, ove ha ritenuto non fondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 384/1992, art. 3 bis, conv. con modif. in legge n. 438/1992, il quale, sottoponendo a contribuzione INPS i redditi denunciati ai fini IRPEF dal socio accomandante di società in accomandita semplice, si dubitava avesse introdotto una ingiustificata disparità di trattamento tra socio accomandante di società in accomandita semplice e socio di società di capitali.

La Corte costituzionale ha, infatti, rilevato che nell’ambito delle società in accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo) assume preminente rilievo, a differenza delle società di capitali, l’elemento personale, in virtù di un collegamento inteso non come semplice apporto di ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più persone, in vista dello svolgimento di un’attività produttiva riferibile nei risultati a tutti coloro che hanno posto in essere il vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante; né la scelta del legislatore può ritenersi affetta da irragionevolezza, in quanto all’onere contributivo si correla un vantaggio in termini di prestazioni previdenziali ai sensi della legge n. 233/1990, art. 5, in base al quale la misura dei trattamenti è rapportata al reddito annuo di impresa: «secondo il d.P.R. n. 917 del 1986, cui la norma denunciata fa rinvio, mentre i redditi da capitale costituiscono gli utili che il socio consegue per effetto della partecipazione in società dotate di personalità giuridica soggette, a loro volta, all’imposta sul reddito dalle stesse conseguito, i redditi c.d. di impresa di cui fruisce il socio delle società in accomandita semplice (così come, del resto, il socio delle società in nome collettivo) sono i redditi delle stesse società, inclusi nella predetta categoria, come già visto, dall’art. 6 del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, e, al tempo stesso, da imputare “a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione”, proporzionalmente alla “quota di partecipazione agli utili”, in forza del precedente art. 5 (redditi prodotti in forma associata).

Ciò fa sì appunto, che il reddito prodotto dalle società in accomandita semplice sia reddito proprio del socio, realizzandosi, in virtu’ del predetto art. 5, come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare, sia pure agli specifici fini tributari, “l’immedesimazione” fra società partecipata e socio (ordinanza n. 53 del 2001)».

Infondato è, altresì, il secondo motivo.

L’art. 52 della legge n. 88/1989 stabilisce che «le pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, delle gestioni obbligatorie sostitutive o, comunque, integrative della medesima, della gestione speciale minatori, delle gestioni speciali per i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti, mezzadri e coloni nonché la pensione sociale, di cui all’articolo 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153 possono essere in ogni momento rettificate dagli enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione.

Nel caso in cui, in conseguenza del provvedimento modificato, siano state riscosse rate di pensione risultanti non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato.

Il mancato recupero delle somme predette può essere addebitato al funzionario responsabile soltanto in caso di dolo o colpa grave».

La norma è stata interpretata autenticamente dall’art. 13 della legge n. 412/1991, secondo cui «la sanatoria ivi prevista opera in relazione alle somme corrisposte in base a formale, definitivo provvedimento del quale sia data espressa comunicazione all’interessato e che risulti viziato da errore di qualsiasi natura imputabile all’ente erogatore, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato.

L’omessa od incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione goduta, che non siano già conosciuti dall’ente competente, consente la ripetibilità delle somme indebitamente percepite».

Il combinato disposto dell’art. 52 e dell’art. 13 cit. riguarda solo le pensioni dell’AGO, comprese le gestioni speciali dei lavoratori autonomi, nonché le pensioni delle gestioni obbligatorie sostitutive o comunque integrative della stessa, mentre ne sono escluse le gestioni esclusive presso cui sono assicurati i pubblici dipendenti (Corte Conti III n. 344/2022), così come non può essere invocato per indebiti maturati su trattamenti pensionistici integrativi istituiti e disciplinati dalla contrattazione collettiva o da norme regolamentari, poiché la giurisprudenza di legittimità è stabilmente orientata nel ritenere che il tenore letterale può essere riferito alle sole forme e gestioni obbligatorie sostitutive o integrative dell’AGO, come tali regolate da specifiche norme di legge (Cass. n. 4448/2017, n. 2506/2017).

Pertanto, tale regolamentazione speciale, che deroga alla disciplina generale in materia di indebito, non può essere ex se applicata all’ipotesi di indebito sorto a seguito della riduzione, per concorrente reddito di impresa, della pensione erogata da una cassa previdenziale privatizzata, stanti la autonomia e specialità dei sistemi previdenziali privatizzati e la non estensibilità agli stessi, in assenza di supporto normativo, di regole dettate esclusivamente per la previdenza obbligatoria.

Sul punto valga il richiamo a Cass. n. 16252/2018, che ha affermato che l’art. 80 del Regio decreto del 28 agosto 1924 n. 1422 (per cui “le assegnazioni di pensioni si considerano definitive quando, entro un anno dall’avviso datone all’interessato, non siano state respinte dalla cassa nazionale; in tal caso le successive rettifiche di eventuali errori che non siano dovuti a dolo dell’interessato non hanno effetto sui pagamenti già effettuati”) «non trova applicazione nella […] fattispecie relativa ad indebita percezione di ratei pensionistici erogati da una Cassa di previdenza privata negli anni 2002- 2009.

 Per le sole pensioni corrisposte dall’INPS, infatti, trova applicazione, fin dal regolamento n. 1422 del 1924, la particolare disciplina, che pone limiti alla regola generale di ripetibilità dell’indebito costituita, oltre che dall’art. 80, r.d.l. n. 1422 del 1924, dall’art. 8, legge n. 153 del 1969, dall’art. 6, comma 11-quinquies, d.l. n. 638 del 1983, convertito, con modificazioni, nella legge n. 638 del 1983 e dall’art. 52, legge n. 88 del 1989, come autenticamente interpretato dall’art. 13, comma 2, legge n. 412 del 1991».

Nella memoria parte ricorrente richiama la sopravvenuta Corte cost. n. 162/2022, che ha dichiarato “costituzionalmente illegittimo, in riferimento all’art. 3 Cost., il combinato disposto del terzo e quarto periodo del comma 41 dell’art. 1 della L. 8 agosto 1995, n. 335, e della connessa Tabella F, nella parte in cui, in caso di cumulo tra il trattamento pensionistico ai superstiti e i redditi aggiuntivi del beneficiario, non prevede che la decurtazione effettiva della pensione non possa essere operata in misura superiore alla concorrenza dei redditi stessi, poiché la regolamentazione del cumulo tra la prestazione previdenziale e i redditi aggiuntivi del titolare, laddove comporti una diminuzione del trattamento pensionistico, deve muoversi entro i binari della ragionevolezza, che verrebbe meno allorché siano applicate decurtazioni del trattamento di reversibilità in misura superiore ai redditi aggiuntivi goduti dal beneficiario nell’anno di riferimento”.

Peraltro, dello ius superveniens può e deve tenersi conto laddove nel giudizio siano già presenti tutti gli elementi in fatto necessari, che debbono risultare dalla sentenza: ciò nella specie difetta, posto che la circostanza che la decurtazione effettiva della pensione sia avvenuta in misura superiore alla concorrenza degli (altri) redditi non risulta neppure allegata e dedotta, essendo stato devoluto all’esame di legittimità il solo profilo della natura dei proventi da partecipazione in sas, e la loro qualificazione in termini di redditi di impresa, nonché della loro ripetibilità, mentre la questione afferente alla neutralizzazione del cumulo è questione nuova che non risulta affrontata nei motivi di ricorso.

Mancando nella sentenza impugnata tali elementi, l’invocazione dello ius superveniens non può portare ex se ad un giudizio positivo sulla idoneità della nuova disciplina giuridica, come derivante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale, ad incidere sulla decisione della lite, di tal chè non costituisce fattore sufficiente e determinante per la cassazione della sentenza (Cass. n. 28267/2017).

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto, con condanna alle spese secondo soccombenza, come liquidate in dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso […]”